Corto Circuito. Dialogo tra i secoli
ATTORNO A KLIMT. GIUDITTA, EROISMO E SEDUZIONE
Mestre, Centro Culturale Candiani
14 dicembre 2016 – 5 marzo 2017
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Di seguito estratto da
“Chi ha paura di Giuditta?”
di Gabriella Belli,
saggio incluso in Attorno a Klimt. Giuditta, eroismo e seduzione,
catalogo della mostra (Mestre, dicembre 2016-marzo 2017),
Venezia, Lineadacqua, 2016, pp. 9-15 .
Sola a combattere il terribile condottiero assiro Oloferne, sola nell’accampamento nemico per salvare la città di Betulia, sola, ma con Dio nel cuore, Giuditta conosce la potenza dell’unica arma su cui potrà fare affidamento, la sua bellezza. E la sua bellezza sarà come un veleno mortale sciolto in quell’ultimo bicchiere di vino che Oloferne, già ebbro, beve ignaro della fine ormai prossima. Imprudente Oloferne, avveduta Giuditta che ben conosce il potere di Eros!
Nasce così, dall’opposizione di Eros e Thanatos, Amore e Morte, quella che oggi si può considerare una delle più antiche incarnazioni dell’eroismo femminile, Giuditta, giovane vedova ebrea, le cui gesta vennero narrate nel Vecchio Testamento, una figura di cui si appropria la storia dell’arte fin dall’epoca medioevale come simbolo della Virtù che trionfa sul Male. […]
Ma quando irrompe sulla scena Caravaggio, il realismo della sua composizione non lascia scampo all’evolversi in direzione più laica del mito di Giuditta. La composizione, dipinta nel 1598-99 ca, è sovrastata da una luce cruda, che illumina la scena resa con un realismo macabro e mostra per la prima volta con tanta fiera crudeltà, l’atto tremendo della decapitazione di Oloferne. […] In quel XVII Secolo, in cui la Chiesa stessa invoca esempi di fortitudine, sono i molti pittori della cerchia di Caravaggio a cimentarsi con questo soggetto. Ed è proprio nell’opera di Artemisia Gentileschi, dunque in pieno caravaggismo, che si mostrano nuove crepe nel mito valoriale positivo di Giuditta. […] Nella rappresentazione Giuditta non esita, è robusta, forte, è una creatura spinta dal preciso desiderio di uccidere, una donna che è uscita ormai dal mito e fa i conti con la storia.
E proprio questa Giuditta risalirà i secoli fino all’età di Klimt, via via spogliandosi nella letteratura, nella poesia e nell’arte della sua castità, della sua virtù e di quella fortitudine, che l’aveva sorretta nella prova del suo estremo gesto di eroismo, in un’inversione negativa del suo mito, che sarà appunto cantato da Klimt nel magnifico quadro dipinto nel 1909. Quella che il maestro viennese ci mostra non è più un’eroina della storia, non è una salvatrice, non è casta, piuttosto è una donna che ha scoperto la propria sessualità, che rifiuta la propria marginalità sociale, che ha disceso il buio dell’inconscio scoprendo le proprie più intime pulsioni, anche quelle legate al desiderio di dare morte. Di questo mondo ctonio, notturno, al quale ormai l’eroina ebrea appartiene, e di cui da alcuni decenni, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, la filosofia, la letteratura, la poesia e, più giovane ma ben presente, la psicanalisi discutono, anche Klimt vuole parlare quando dipinge la sua Giuditta, nella forzatura di una verticalità eccessiva, che è dimensione fisica e psicologica insieme, un passaggio iniziatico dalla fine dell’eroismo e alla vittoria di Thanatos. […] Il pittore austriaco ha capito che c’è un modo nuovo per essere moderno, ricorrere al linguaggio antico, rappresentare l’attualità con l’”inattualità” di modelli iconografici del passato. La sua pittura diventa così l’affascinante paradosso del suo tormentato cammino verso l’invenzione di una mitologia dell’uomo contemporaneo. […]
Certamente per quanto riguarda le figure femminili, il passaggio da una formulazione eroica (quella di Caravaggio per intenderci) a una psicanalitica come avviene nell’opera di Klimt, richiede un cammino di deflorazione del mito, che viene via via privato di molte virtù morali, per lasciare spazio a una figura ambigua, insieme seduttrice e crudele assassina, femme fatale e vendicatrice, simbolo di tutto ciò che tra Ottocento e Novecento la società maschile teme di più. La minaccia della castrazione – la testa tagliata non è forse il simbolo della cancellazione dell’identità e della perdita del potere? – che si perpetua a ogni apparire di Giuditta, prende il sopravvento sulle buone intenzioni dell’eroina ebrea, che si assicura, grazie anche all’impareggiabile interpretazione di Klimt, il primato di peccatrice e seduttrice della storia dell’arte. […]
Ecco dunque l’eccesso di bellezza della sua Giuditta II, che ha ormai superato il sottile confine tra angoscia e isteria, tra ansia e nevrosi, gettandosi alle spalle tutto quell’esercito di seduttrici crudeli, nulla al suo confronto, che erano state le protagoniste del decadentismo e del simbolismo in pittura e letteratura, a cominciare dalla Salomé di Flaubert, di Moreau, Beardsley, Mallarmé, Wilde, Huysmans. La nuova Giuditta è una donna contemporanea, che ha conosciuto la passione e si è concessa ad Oloferne che, come Hebbel aveva scritto nel suo celebre dramma Judith, ne violerà la verginità, decidendo così del suo macabro destino. Ma la descrizione di tutto questo è tralasciata e il dipinto ci mostra invece solo il ritratto di Giuditta, una donna moderna in preda ad un attacco d‘isteria, le mani contratte a trattenere la folta chioma dell’amante assassinato, lo sguardo in preda all’angoscia, la decorazione del fondo a motivi fitomorfi, che ingloba come fosse pianta carnivora il corpo della bella Giuditta. L’accesso alla conoscenza dell’Io e del Sé, che la psicanalisi gli ha indicato, ha dunque portato Klimt verso la piena consapevolezza del suo ruolo di narratore di una mitologia contemporanea, che ha avuto accesso ai labirinti più profondi della psiche, una strada senza ritorno. […]
Nella modernità che avanza, la parabola di Giuditta sembra sbiadire. Il suo mito non interessa gli ismi delle avanguardie, che fuggono il ricorso alla storia e si allontanano da ogni figurazione mimetica. Non è neppure ben accolto, per l’eversione del suo significato, tra le caute allegorie che occhieggiano dal vento del “ritorno all’ordine” che soffia in tutta Europa dopo il 1915. Eppure Giuditta, sotto nascoste spoglie, giocherà ancora un ruolo importante nella storia dell’arte tedesca del ‘900, nell’emergenza della Repubblica di Weimar, dove si riaccenderà il fuoco dell’eversione che metterà in scena un esercito di donne, passate dal divano di Freud alla lotta per l’emancipazione, per il riconoscimento del proprio libero arbitrio, del proprio corpo, della propria individualità. Ora Meduse ora Sfingi, ora Giuditta ora Salomè, queste donne non hanno nulla dell’antica bellezza, si sono mostrate per quello che sono, con il diritto di essere brutte e terribili forse per la prima volta nella storia dell’arte, finalmente soggetti e non più oggetti. L’arte contemporanea ne ha raccolto il testimone.
Giuditta ha avuto dunque giustizia? Difficile a dirsi: certo è che “l’affermazione della propria individualità” non possiamo dire sia per le donne un atto compiuto se la risposta al loro autodeterminarsi è a tutti gli effetti il femminicidio che dilaga, ovvero il ribaltamento del mito di Giuditta.