La serie delle “Venezie” di Lucio Fontana è un corpus di opere concepite e realizzate in pochi mesi e dedicate ad un luogo reale.
I capolavori nascono dalle suggestioni che la città lagunare offre all’artista e si manifestano in un momento in cui Fontana muta la sua tecnica pittorica, introducendo una materia più spessa e al contempo più artificiosa, segnata da ampi affondi gestuali e dall’introduzione di frammenti di vetro. Le Venezie sembrano quasi sconfessare la linea monocromatica della produzione di Fontana fino a quel momento.
Come sottolinea Luca Massimo Barbero, intorno al 1960, quando l’artista è ormai riconosciuto nel suo ruolo di «padre fondatore del monocromo come luogo d’intellettuale rigore, agli occhi dei più Fontana sembra improvvisamente cambiare rotta, con una impennata di sapore aereo, e sprofondare nel luogo assolutamente antitetico: il Barocco di Venezia e la suadente decadenza della Serenissima» (Barbero 2006, p. 26).
Si tratta di un vis-a-vis, un’immersione dell’artista in una città monumentale, ricchissima di storia, di interpretazioni e di riferimenti iconografici e «Fontana affronta l’Immagine e il Simbolo di Venezia attraverso il suo Luogo Comune, la sua sfacciata immagine letteraria, spingendosi quasi irriverentemente verso un risultato che rimanda a una allusività ambigua posta tra il venato sentimentalismo e la ridondanza kitsch, una soluzione sorprendente ed equivocabile al limite del paradosso irrispettoso e ironico» (Barbero 2006, pp. 27-28).
Le sollecitazioni che Venezia trasmette a Fontana si trovano trasfigurate nell’evocativa rilettura dei luoghi, resi attraverso una materia densa e una pasta pittorica a tratti luminescente, un colore vibrante e infinite sfaccettature date dalle pietre di vetro innestate sul piano bidimensionale della tela.
L’incontro con il reale diventa occasione per la resa di una sensazione incorporea, come Sole in piazza San Marco, opera che «testimonia del grado di evocazione rappresentativa di temi e luoghi ripresi nell’opera di Fontana, ma anche della sua volontà di tradurre la materia in luce, attraverso un colore e dei materiali – i frammenti di vetro colorato – che assumono una funzione trascendente dello stesso spazio rappresentato» (Tedeschi 2008, p. 22).
Un luogo fisico si trasforma in un nonluogo, diventa territorio del pensiero, della sensazione, e viene vissuto secondo una percezione discronica, di sospensione del tempo e dello spazio.
Fontana suggerisce l’assonanza analogica che la città e la sua materia vibrante gli comunicano e ci restituisce un racconto che non ha più nulla di aneddotico o di realistico, ma è piuttosto un episodio interiore, un’intima rilettura di Venezia secondo una cronologia che si rivolge all’eterno e sul filo di una percezione che si espande all’infinito. «Le variazioni veneziane distruggono il visibile per ricostruirlo al termine della notte oscura in cui nulla di ciò che fu è ancora, ma tutto quello che sarà si annuncia» (Rouve 1963).
Nella serie delle Venezie si annuncia quello che sarà, e l’annuncio può darsi solo alla fine della notte oscura, necessaria all’artista per distruggere il visibile e trasmettere ciò che resta e ciò che davvero conta, l’Idea.
Nel luglio 1961, nei giorni dell’inaugurazione della mostra “Arte e Contemplazione” a Palazzo Grassi, dove erano esposte per la prima volta undici Venezie, Fontana scriveva all’artista Jef Verheyen: «penso che la materia sia importante per l’evoluzione dell’arte, ma bisogna che l’artista domini la materia, è l’elemento che serve all’artista per la sua nuova creazione, ma l’importante, la cosa più importante è l’Idea» (Fontana 1961, p. 183).
Elisabetta Barisoni
(dal catalogo edito da Lineadacqua)